Insegnare la Resistenza: come e dove educare le nuove generazioni all’antifascismo

Insegnare la Resistenza: come e dove educare le nuove generazioni all’antifascismo

23 Aprile 2023 0 Di Valeria Longobardi

Il primo governo di destra in Italia, le infelici dichiarazioni dei ministri dell’Istruzione e della Cultura nonché le recentissime e preoccupanti affermazioni del Presidente del Senato sui fatti di via Rasella e sulla Costituzione, fanno comprendere che, dopo quasi ottanta anni dalla fine della guerra, sono andati smarriti i valori fondanti della nostra Repubblica; dunque, mai come in questo momento, è necessario riaprire il dibattito storico sul significato della Resistenza e sulla sua permanenza nella vita delle nostre istituzioni.
Partecipo ogni anno alla manifestazione per la celebrazione del 25 aprile: siamo i soliti noti, le istituzioni non sempre ci sono, in maniera preoccupante mancano i giovani, mancano anche i loro nonni che quei tempi o li hanno vissuti o li hanno sentiti raccontare, mancano i loro insegnanti che dovrebbero garantire la trasmissione a tutti dei fondamenti della Costituzione. Dovrebbero trasmettere, ma non sempre lo fanno. Ed è su questo silenzio della scuola che voglio soffermarmi per condividere qualche riflessione e sperare in una ripresa del confronto/dibattito storico. Con una nuova guerra alle porte dell’Europa ci avviamo verso gli ottant’anni dalla fine della seconda guerra mondiale e di nuovo sentiamo parlare di nazismo: i Russi, ex alleati degli Anglo-americani, accusano Zelensky di essere un nazista e l’Europa e l’Ucraina restituiscono l’offesa a Putin. E’ dunque necessario ridefinire le categorie storiche del “secolo breve” e dedicare più tempo allo studio della storia del Novecento; e la scuola dovrebbe rappresentare il luogo più naturale in cui svolgere questo lavoro. Ma, a ben guardare i programmi scolastici, scopriamo che non è da molto tempo che si dedica la necessaria attenzione alla storia della Resistenza e del secondo dopoguerra e che ancora molte sono le resistenze interne da parte di alcuni docenti i quali, per mancanza di visione o per pregiudizio, non sono in grado di fornire ai giovani i giusti strumenti di interpretazione. Bisognerebbe sottoscrivere protocolli d’intesa con il Ministero dell’Istruzione e del Merito, proporre conferenze, presentazioni di libri, cineforum, dibattiti, concorsi, fornire documenti e fonti, incentivare la partecipazione delle scuole alle celebrazioni del 25 aprile: mai come in questo periodo di oscurantismo culturale e politico, non si deve lasciare campo libero alla rinascita dei fascismi.
Nonostante i tentativi di revisione storica, non c’è dubbio che la Resistenza sia l’avvenimento fondante della nostra democrazia e il suo insegnamento risponde sostanzialmente a due obiettivi:

  • educare i giovani all’uso della memoria e delle memorie plurali e diverse e
  • fornire una ricostruzione storica documentata degli avvenimenti militari, dei contenuti politici e del contesto sociale che contribuirono alla guerra di liberazione ed alla successiva definizione antifascista della nostra Costituzione.

Il primo obiettivo si configura come un’impresa ardua in un mondo senza memoria, dove non avviene più il passaggio di ricordi all’interno delle famiglie e delle comunità, dove i nostri giovani vivono in un eterno presente e soffrono condizioni di precarietà e incertezze sul futuro. Da “boomer” io sono cresciuta con due nonni che mi hanno dato un’impronta bipartisan: uno sommergibilista e fascista che vagheggiava il ritorno dei bei tempi in cui si stava tutti con le porte aperte perché non c’erano ladri (non perché non ci fosse nulla da rubare!); l’altro socialista antifascista che si rifiutò di tesserarsi al partito fascista e non fu licenziato solo perché aveva nove figli, ma fu trasferito dal dazio di Castellammare a quello di Caserta. I racconti dei miei nonni hanno accompagnato la mia infanzia e si trasformavano in film nella mia mente: pur senza aver vissuto negli anni della guerra, ne sapevo abbastanza da potermene fare un’idea e da poter scegliere da sola la mia identità politica, distinguendo tra ciò che sentivo più congeniale a me e ciò che non mi apparteneva. Un privilegio che le generazioni successive non hanno avuto. A chi è nato a partire dalla fine del secolo scorso, la storia della seconda guerra mondiale e della Resistenza sono arrivate attraverso la scuola, il cinema e la televisione, la narrazione letteraria, l’arte e la fotografia. La distanza mentale che c’è tra i giovani millennial o della generazione Z e la Resistenza è la stessa che c’è tra loro e la Rivoluzione francese, la scoperta dell’America o le guerre puniche: in tutti i casi per loro si tratta di fatti di un passato vago ed indistinto. E la scuola da sola non è capace di ridurre questa distanza.

Anche il secondo obiettivo – fornire una ricostruzione storica documentata degli avvenimenti militari, dei contenuti politici e del contesto sociale che contribuirono alla guerra di liberazione ed alla successiva definizione antifascista della nostra Costituzione – è difficile da realizzare solo attraverso la scuola, dove la maggior parte dei docenti, pur essendo dipendenti dello Stato, si sente legittimata dalla libertà di insegnamento a portare in aula il proprio personale punto di vista e interpretare soggettivamente i fatti storici, soprattutto quelli della nostra storia contemporanea. La categoria dei docenti è piuttosto variegata e non riceve una formazione in servizio di tipo universitario. Insegno da 25 anni e so con certezza che molti miei colleghi non si occupano di politica al punto da non avere neanche un orientamento partitico (tra gli astenuti nelle ultime tornate elettorali una buona percentuale appartiene alla classe docente); molti insegnanti di Storia non sanno neanche dell’esistenza dell’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia ed ignorano l’esistenza di un immenso patrimonio documentale sulla Resistenza. Questi insegnanti sono essi stessi il risultato del lungo silenzio della scuola sulla Resistenza: fino al 1965 i programmi scolastici arrivavano alla prima guerra mondiale e il 25 aprile era celebrato esclusivamente dalle associazioni partigiane; negli anni della contestazione studentesca e delle lotte operaie alcuni docenti democratici, sfuggendo al controllo dell’autorità scolastica, cominciarono ad affrontare in classe il tema della Resistenza e della Liberazione, ed altri giovani storici studiarono la documentazione delle brigate partigiane e iniziarono a raccogliere i racconti dei protagonisti e dei testimoni della lotta partigiana. Fino agli anni Ottanta del secolo scorso, per effetto della guerra fredda e della contrapposizione ideologica, l’argomento risultava troppo spinoso e solo il Presidente partigiano Sandro Pertini riportò l’attenzione delle istituzioni ai valori della Resistenza come fondamento della democrazia e difesa super partes contro il terrorismo. Nel 1985 seguì la circolare Falcucci che invitò tutte le scuole a ricordare il 25 aprile come data nazionale e autorizzò gli Istituti storici della Resistenza ad entrare nelle scuole e a narrare ai ragazzi le principali vicende territoriali e nazionali. Il confronto continuò fino alla fine del decennio ed approdò al riconoscimento della Resistenza come matrice politica e culturale della Costituzione e dello stato nazionale. Negli anni Novanta lo sdoganamento del partito di ispirazione fascista e la cosiddetta pacificazione tra fascisti e partigiani portarono al revisionismo storico e al “rovesciamento” della storia e della memoria della Resistenza, orientamento che fu particolarmente accentuato nella seconda metà degli anni Novanta con il governo di centro-destra. In particolare nella scuola si avviò una politica contraria ad insegnanti e libri di testo definiti di sinistra, accusati di omettere faziosamente fatti storici quali le foibe, e si equipararono i due totalitarismi, anzi, si giustificarono addirittura gli orrori del nazismo con quelli dello stalinismo, e la polemica sorta sulla memoria “divisa” ha avuto come effetto il ridimensionamento del ruolo che la lotta partigiana ha avuto nella costruzione dell’identità nazionale: l’8 settembre è stato interpretato come sfascio dello Stato e come “morte della patria” (Ernesto Galli della Loggia). Nel 1994 il ministro della pubblica istruzione Luigi Berlinguer stabilì che nell’ultimo anno di scuola superiore si dovesse studiare la storia del Novecento ed avviò un percorso di formazione per i docenti in collaborazione con l’Istituto nazionale per la storia del movimento di Liberazione in Italia: prese vita una nuova modalità didattica nell’insegnamento della storia contemporanea, la ricerca laboratoriale, e si diede nuovo impulso alla ricerca storica. Dopo anni di sconcertante silenzio, nel 1998, in occasione del sessantesimo anniversario della promulgazione delle leggi razziali, iniziò un dibattito sul ruolo della memoria che nel 2001 approdò all’istituzione del “giorno della memoria” per condannare in maniera inequivocabile e come “male assoluto” la violenza nazista della deportazione e dello sterminio degli Ebrei. In occasione del sessantesimo anniversario della Liberazione, nel 2005, un altro Presidente che aveva combattuto con l’esercito italiano, Carlo Azeglio Ciampi, ha restituito alle forze armate italiane quel ruolo fondamentale nella lotta al nazismo che il revisionismo storico aveva ricusato e ricordò l’eccidio di Cefalonia come primo atto di resistenza italiana all’esercito nazista.

Nel nuovo millennio, forse perché sta venendo meno la voce dei protagonisti della storia partigiana (ricordiamo la recente scomparsa del grande compagno partigiano Antonio Amoretti), l’attenzione si è spostata sui luoghi della Resistenza: monumenti, targhe e luoghi che ancora oggi raccontano le storie, individuali e collettive, di quanti hanno combattuto contro il nazi-fascismo. Questi percorsi didattici, che si basano sull’uso di fonti materiali e immateriali e sul recupero della storia dei luoghi nel tempo, inseriscono la microstoria nella storia generale e permettono ai ragazzi di costruire un percorso personale di memoria e di conoscenza storica.
In conclusione possiamo dire che in fondo sono solo venticinque anni che la storia della Resistenza si studia in maniera più o meno seria nella scuola italiana e dunque c’è ancora tanto da fare sia per coadiuvare i docenti sia per interessare le nuove generazioni allo studio della Resistenza.
Dopo la scomparsa degli ultimi partigiani, che hanno portato la propria testimonianza diretta ai giovani di diverse generazioni, ci dobbiamo porre l’obiettivo di trovare nuovi modi per ridare vita e senso alla storia della lotta partigiana; noi docenti dobbiamo essere in grado di fornire le giuste modalità narrative ed interpretative di un periodo tanto complesso e controverso e, soprattutto, dobbiamo individuare le categorie storiografiche di cui bisogna avvalersi: si deve cioè privilegiare le vicende militari o non sarebbe più utile rintracciare il cambiamento della mentalità innescato dalla Resistenza in tutta la società italiana, soprattutto ad opera delle donne?     

                                             

Visto che non possono bastare più i soli libri di testo, si devono vagliare attentamente gli altri strumenti di cui avvalersi per preparare delle lezioni efficaci e coinvolgenti, riconoscendo che un grande ruolo nella divulgazione di massa è giocato dalla fiction e da altre forme d’arte che arrivano facilmente ai giovani, i fumetti o la musica: la canzone partigiana “Bella ciao”, ad esempio, è diventata uno slogan di libertà in tutto il mondo ed un tormentone da discoteca canticchiato e riconosciuto da tantissimi ragazzi; peccato però che quasi tutti associno questa canzone alla serie “La casa di carta” e non alla Resistenza italiana. Ebbene, in questo scenario dobbiamo essere capaci di offrire ai giovani la chiave di lettura di quegli avvenimenti del Novecento da cui è scaturita la storia dei nostri giorni e la nostra preziosissima libertà.

PODCAST a cura di Elvira Fisichella