Marco è un campione di ballo e un cantante delle voci bianche del Piccolo Coro dell’Antoniano; è un ragazzo sensibile, impegnato, curioso, e ha la fortuna di avere una famiglia attenta che si premura di offrirgli ogni tipologia di stimoli culturali. Ha quasi 13 anni, e quest’anno prepara gli esami di fine ciclo alla secondaria di primo grado: studia alla scrivania, come tutti, a volte approfitta del divano per leggere e del pc per qualche attività, soprattutto linguistica; svolge laboratori e attività di vario tipo e spesso al venerdì va in gita con la famiglia per approfondire i suoi studi. Marco è un homeschooler. E’ un plusdotato. Ha “dovuto” rinunciare alla scuola perché non è stato possibile conciliare le sue necessità culturali con le proposte didattiche delle scuole pubbliche del suo paese. Lo incontriamo, insieme alla famiglia, con l’interesse dovuto al suo peculiare percorso scolastico:
Marco, come mai non vai a scuola? E cosa vuol dire per te essere homeschooler?
“Ho fatto i primi 4 anni delle elementari e poi mi è stato concesso un salto di classe. Quindi ho saltato la quinta, facendo un esame alla fine della quarta, e sono passato direttamente in prima media. Alla fine della prima media avevo già fatto tutta la matematica che viene proposta nei tre anni delle medie e alla fine della seconda media avevo già raggiunto e superato i livelli richiesti per le lingue straniere. Inoltre suono il pianoforte. A scuola durante le due classi delle medie provavo un forte disagio, che qualcuno chiama semplicemente noia. Ma mentre nella noia riesco anche a diventare creativo, in quel caso la sensazione era proprio quella di un tempo sprecato e lasciato scorrere a rallentatore. Disagio che cercavo di nascondere, ma che mi rendeva stanco e deluso di non poter usare il tempo dello studio apprendendo cose che mi sarebbe piaciuto imparare in modo più approfondito e veloce. Nonostante questo stavo bene con i compagni. Ma ritengo che se si è amici lo si è anche se i percorsi scolastici si diversificano.Ho espresso più volte questo disagio ai miei insegnanti, ma già dalla seconda media non ho avuto nessun pdp e all’inizio della terza media la dirigente mi ha esplicitamente detto che la scuola non avrebbe potuto propormi nulla e che se mi sentivo limitato avrei fatto bene a scegliere la scuola parentale per poi fare l’esame di terza media a giugno. Sentire queste parole mi ha fatto male”.
“Ho deciso, con l’aiuto dei miei genitori, che una esperienza da homeschooler mi avrebbe potuto anche fare bene. In effetti sto studiando in modo più approfondito. Mentre prima mi bastava ascoltare in classe, sto imparando a studiare. Perché si pensa sempre che un ragazzo plusdotato non abbia bisogno di imparare a farlo, e invece io a scuola non ho mai avuto bisogno di leggere e sottolineare. Quello che coglievo dall’insegnante era sufficiente per andare bene. Approfondisco le lingue straniere, la matematica per cui sono arrivato alla trigonometria, la lettura di libri un po’ più impegnati di quelli che mi proponevano a scuola. Se voglio approfondisco con ricerca libera su filmati e documenti anche su internet. Ho tempo per scegliere percorsi alternativi. Ad esempio ho fatto un corso per Tecnico del Suono, alcuni laboratori di Robotica con Arduino, dei laboratori di Infodemia e comunicazione. L’anno prossimo andrò al liceo scientifico indirizzo STEAM e spero di trovarmi bene.”
Tu sei un ragazzo molto impegnato, che riesce ottimamente in ciò che intraprende: quanto c’entra in questo la tua plusdotazione?
“Sinceramente non lo so e… forse dire ottimamente è una parola grande. Devo molto alle persone che credono in me, sia al coro che a ballo. In alcune cose non mi sento così bravo. Ad esempio tendo ad essere abbastanza sintetico nella scrittura e questo non fa di me un grande scrittore di romanzi. Sono distratto sui dettagli del mio modo di presentare le cose: sia le idee che le soluzioni dei problemi matematici, ad esempio. Per me conta il risultato molto più che come ci sono arrivato. Anche perché spesso non saprei bene spiegare il filo dei miei ragionamenti. Però dicono che anche questo deriva dalla mia plusdotazione e da come è impostato il mio cervello. So di avere un alto potenziale. Ma a me che amo la fisica è chiaro che un potenziale non è nulla se non si trasforma in qualche altro tipo di energia. E il vincolo o la forza che ti mette in moto è dato dal sistema e dalle persone che sono attorno a te. Non so, non vedo una connotazione diretta tra la performance e la mia caratteristica neuroatipica, anche se sicuramente un quoziente intellettivo alto e una sensibilità profonda in alcuni casi possono rendere più semplici ottenere certi risultati. Vedo più una correlazione tra performance e ambiente, stimoli, persone che credono in me.”
La plusdotazione è una caratteristica personale riscontrabile nel 3% circa della popolazione. Si individua grazie a test psicodiagnostici che in genere rilevano un quoziente intellettivo di due deviazioni standard oltre il quoziente medio della popolazione, un calcolo statistico che non rappresenta in nessun modo la persona e le sue caratteristiche. Un numero, però, che spesso viene posto al centro di tutto e caricato di aspettative e fraintendimenti, generati nella maggior parte dei casi da narrazioni romanzate e sfoghi estemporanei e che, concretamente, rendono difficile l’accoglienza nelle scuole. Sulla Plusdotazione si è detto di tutto, trasformando una peculiarità in una sorta di circo delle inesattezze e, di fatto, ostacolando in tutti i modi l’inclusione: questo perché oggi in Italia non esiste una normativa specifica che tuteli i gifted e le scuole sono lasciate alla libera volontà e interpretazione dei docenti, i quali spesso, in mancanza d’altro, si trovano ad estendere la normativa BES (normativa la cui ratio è la semplificazione e la facilitazione didattica a favore di soggetti con prestazioni limitate da una rosa di caratteristiche di natura personale o socio-economiche, n.d.a.) anche a questi alunni, in mancanza spesso anche di una specifica formazione in materia.
La cosa interessante è che nonostante l’incidenza percentuale tra BES e gifted sia pressoché la medesima, la formazione BES ha trovato accoglienza nei canali ufficiali e universitari, mentre quella per la plusdotazione continua ad essere frammentaria e spesso affidata ai privati, anche quando non si parla di scuola. Eppure, già dal 2013 in Europa si è dato risalto al valore costruttivo delle personalità gifted, intese come persone con le potenzialità di lasciare il segno nello sviluppo futuro del mondo, ciascuna secondo i propri talenti. Questo cortocircuito logico non sfugge ai plusdotati stessi, che già da giovanissimi sanno analizzare le situazioni ed elaborare interessanti alternative, come la proposta di Marco per la scuola, le cui parole chiave sono autostima, capacità di discernimento e individualizzazione del percorso.
Lui dice che la scuola dovrebbe avere 5 anni di corso elementare, una flessibilità da 1 anno a 4 di medie e 5 anni di superiori: in questo si dovrebbero comunque prevedere eccezioni per i plusdotati o per chi ha delle particolari necessità, ma non ci dovrebbe essere mai nessuna bocciatura. Il centro di tutto deve essere lo studente e la sua personale crescita, la sua maturazione, i suoi interessi e capacità.
Lui propone una profonda ristrutturazione della primaria, con l’inserimento, per tutti, di lezioni di canto corale e di strumento, con veri insegnanti di musica; lezioni di informatica, che portino alla conoscenza completa almeno del Pacchetto Office entro la classe quinta; lezioni di motoria con insegnanti specializzati su questo argomento, e così via.
Ritiene che alla primaria dovrebbero essere individuate le potenzialità e fragilità degli studenti, anche attraverso indagini neuropsicologiche, e costruite solide basi per gli anni successivi, lasciando alla secondaria di primo grado il compito primario di dare ai ragazzi le competenze necessarie per poter discernere che tipo di strada percorrere nel loro futuro, e la flessibilità nella durata del percorso servirebbe appunto a questo, senza alcun problema se a qualcuno bastasse 1 anno e ad altri 4, perché il sistema metterebbe al centro il ragazzo, non le scadenze, le pressioni, o il preconcetto del dover “marciare insieme”.
Lui auspica poi una scelta personale ed autonoma, libera dai condizionamenti di amici, genitori o insegnanti, ma eventualmente supportata da alcune figure di Mentori, selezionati proprio a questo fine, come psicologi o pedagogisti.
Afferma che negli anni di secondaria di primo grado tutte le materie dovrebbero essere affrontate in modo abbastanza approfondito, diversificando la richiesta di prestazione ma non i contenuti (ad esempio informatica dovrebbe prevedere non più un utilizzo di tipo UTENTE ma una programmazione di base con l’uso di diverse interfacce): in ogni caso chi non riuscisse ad imparare “a sufficienza” non dovrebbe venir bocciato, ma potrebbe percorrere il percorso con il suo ritmo, secondo una “fluidità” e un cambio di punto di vista che per gli adulti di oggi è ancora impensabile.
Dopo questo percorso, puntato sulla maturazione personale più che sui contenuti, ma senza tralasciarli (soprattutto per i talentuosi e i dotati), ognuno dovrebbe essere in grado di capire quali materie siano più congeniali e quale sia la propria aspirazione circa il proseguo degli studi: 3 anni di attività professionalizzante oppure 5 di superiori, con proposte formative come le attuali, ed eventualmente l’università.
Secondo il suo ragionamento, basato sull’evoluzione personale e non sulla prestazione, anche alle superiori non si prevederebbero bocciature, perché non concepisce che qualcuno possa non impegnarsi, in un sistema dove al centro c’è il ragazzo e il suo benessere: chi non dovesse riuscire in una qualche materia, potrebbe semplicemente rivedere il percorso negli anni o interiorizzare che quella materia non possa essere uno sbocco per il suo futuro: lui infatti ritiene che il problema della scuola di oggi sia proprio la centratura su argomenti come il programma da terminare, il voler portare tutti allo stesso livello e una inclusività sostanzialmente ipocrita e pretestuosa, invece che sullo scolaro per ciò che è.
Insomma, un passaggio da un sistema di premi e punizioni, livellante al ribasso, in cui il retaggio della tradizione educativa mette al centro la prestazione e instaura un complesso e altalenante meccanismo di ansia e giudizio esterno, che si trasformerebbe in un apparato formativo strettamente allineato all’etimologia del nome: “e-ducere”, portare fuori, nella semplicità dell’evoluzione personale di ciascuno. “Non so se potrebbe avere un senso – commenta la mamma – ma quasi quasi mi ha convinto.”

Erica Talamonti, Coordinatrice CISS (Coordinamento Insegnanti Specializzati Sostegno), referente regionale StepNet ODV, docente di sostegno specializzata ed ex sindacalista.